MIO PADRE.

MIO PADRE.
Il ricordo di mio padre è molto sfumato, avevo solo 5 anni quando
morì.
Dalla mia memoria affiora la figura di un uomo grande, alto ma..
senza volto.
Non riesco a ricordare il suo viso, per farlo devo guardare le poche,
vecchie e ingiallite foto che mia madre ha conservato con tanta cura.
Ricordo, come un flash, che la sera, dopo il lavoro, lo vedevo
arrivare da lontano sulla via Appia Nuova. 
Gli correvo incontro, lui mi prendeva in braccio e poi mi metteva 
a sedere sulla finestrella del negozio di drogheria situato accanto al 
portone del nostro palazzo.
Mi regalava un grosso bacio e 5 lire per comperarmi i pesciolini di
liquirizia.
Mio padre, "Mastro Ubaldo", così era chiamato, era un bravo
stuccatore-decoratore, un vero artista.
Aveva avuto anche un incarico di prestigio, quello di restaurare la
villa del Papa a Santa Maria degli Angeli in Assisi.
Aveva molti amici e tutti gli volevano bene. Per noi bambini,
quando parlavamo e ci raccontavamo dei nostri genitori, il più
buono fra tutti era il padre di Franchino.
Un uomo coerente e antifascista convinto, non ha mai accettato i
ricatti del regime, pagando talvolta un caro prezzo.
Nel 1940 partì per l'Albania, che allora faceva parte del regno
d'Italia, a capo di una squadra di decoratori romani per restaurare
importanti e signorili ville della capitale Tirana e diverse palazzine
d'epoca a Durazzo.
In seguito, durante la guerra, combatté sul fronte Greco e
Albanese, dove purtroppo si prese la piorrea che gli rovinò, ancora
giovane, la maggior parte dei denti.
Tuttavia il suo fisico rimase sempre integro possente e vigoroso.
Nel 1942 fu richiamato dal regime per raggiungere il reggimento
della contraerea di Roma che raggiunse a malincuore.
Alla firma dell'armistizio, nel settembre del 1943, l'esercito italiano
era allo sbando e anche lui come tantissimi altri scelse la via della fuga.

Mio padre nacque a Roma, in un grande palazzo d'epoca
in Via Piave, nella casa dove vivevano i suoi genitori: Ruggero e
Maria Luisa, originari di Assisi, ma lui si sentiva orgogliosamente
romano fino al midollo.
Mio nonno Ruggero, era l'ultimo rampollo di una
famiglia benestante di Assisi le cui radici risalgono fino al 1600.
Nel museo di Assisi ancora oggi è esposta una stele che ricorda un
Domenico Paccoj del 1700 quale benefattore e mecenate di Assisi.
Mia madre mi raccontava spesso di mio nonno. Ruggero era molto
bello, alto, bruno e con gli occhi azzurri. Burbero, energico e
severo, ma fondamentalmente buono. Quando conobbe mia madre
gli piacque subito e quasi ordinò a mio padre di sposarla al più
presto.
Le tre sorelle maggiori conducevano una vita sfarzosa e
dispendiosa, fatta di viaggi, raffinatezza e liberalità. Non si sono
mai sposate e in breve tempo dilapidarono il patrimonio familiare.
Erano chiamate col nomignolo di "cichine" per le numerose
sigarette, ed anche sigari avana, che fumavano.
Compiuta la maggiore età, Ruggero scappò dalla città natia insieme
alla sua amata Maria Luisa, detta "Giggia", e si trasferì a Roma.
Riuscirono ad affittare una grande casa in Via Piave.

Una casa bella e spaziosa, ma che affacciava solo sull'ampio cortile
interno del palazzo dove il sole non ci batteva quasi mai e io la
ricordo perennemente buia.
Ruggero fu assunto da un maestro ebanista che gestiva una
importante bottega del legno e ben presto divenne un ottimo
falegname. Mia nonna Giggia, invece, amò essere una onesta
casalinga, amava molto Ruggero ed è in questa casa che nacquero
i quattro figli: mio padre, un fratello e due sorelle.
Tuttavia il destino non fu benevolo con loro: Mio padre morì a soli
39 anni. Mia zia Adelaide, restò presto vedova con due figli ancora
piccoli e lavorò duramente presso una sartoria per sbarcare il
lunario, quando morì non aveva ancora sessant'anni.
Mio zio Mario non si è mai sposato e visse sempre accanto alla sua
amata sorella.
Fu assunto presso lo stabilimento della "Birra Peroni".
Era innamorato di questo lavoro che era tutta la sua vita e tutta la sua
soddisfazione.
Un giorno fu dichiarato uno sciopero, lui vi partecipò e fu licenziato
insieme ad altri operai. Suo cognato marito della sorella, che era un
dirigente dello stabilimento, non mosse un dito per aiutarlo: si vergognava!
La legge 300 del 1970, che va sotto il nome di Statuto dei
lavoratori, era di là da venire.
Dopo la morte della sorella e la forte depressione che lo colse per
la perdita del lavoro, iniziò a frequentare le osterie e bere sempre
più spesso bicchieri di vino, anche lontano dai pasti.
Iniziò a vivere in maniera trascurata e si lasciò morire ancora giovane.

La più fortunata fu Zia Giovanna. Fece un matrimonio di "interesse",
visse a lungo e fu molto amata dai suoi figli. Di questi miei cugini
non ho più notizie e non so quale è stato il loro destino
Per tutti viene il momento dei riepiloghi, come corre in fretta la tua
storia! I miei pensieri si accavallano, sono momenti in cui il passato
ritorna con prepotenza e con grande nostalgia.
Mi rivedo, come un flash, saltare sul grande letto matrimoniale e
infilarmi sotto le coperte fra mio padre e mia madre: lei si seccava,
lui invece felice giocava con me.
Una sera d'estate, con un mio amichetto ci rincorrevamo intorno al
grande tavolo situato nello stanzone di ingresso e lui seduto in
poltrona, in canottiera e mutande bianche lunghe, rideva contento.
Mia madre mi raccontava che quando sono nato io, fu come se fossi
stato il primogenito maschio, poiché mia sorella aveva già
sette anni e mio fratello dieci.
Si sentiva l'uomo più felice del mondo, offri pasticcini e da bere a
tutti gli amici e conoscenti e volle fare un cin cin con tutti gli abitanti
del palazzo
Mia madre mi raccontava che in tempo di guerra mia nonna
“Giggia” il sabato era solita recarsi, insieme al suo nipotino Alvaro
(mio cuginetto figlio di zia Adelaide) nella vicina cittadina di Velletri
nel tentativo di racimolare viveri: olio, burro, farina e magari
barattare altri beni.
Un maledetto sabato però gli americani appena sbarcati ad Anzio,
bombardarono l’interno della costa e grosse bombe caddero anche
su Velletri.
Tra le tantissime vittime ci furono anche mia nonna e mio
cugino Alvaro di 12 anni.
Mio padre era inquieto. Di solito nel pomeriggio erano già tornati.
Era già tarda sera e non si vedevano. Mio padre era a conoscenza
dello sbarco degli americani e dei bombardamenti all'interno.
Ebbe un brutto presentimento. Si mise subito in viaggio, un po’ a
piedi, un po’con mezzi di fortuna raggiunse Velletri.
Lo scenario che gli si presentò agli occhi fu terribile: terrore, dolore
e desolazione erano spaventosamente dappertutto.
Si unì subito agli aiuti che erano immediatamente accorsi e
iniziarono a scavare fra le macerie anche a mani nude.
Scavarono per molte ore. Finalmente riusci ad individuare i corpi di
sua madre e di suo nipote. Ebbe la forza ed il coraggio di sistemarli
nelle bare insieme ad altre moltissime vittime innocenti.
Quei poveri resti umani furono tutti sepolti in fosse comuni.
Tornò a casa con la morte nel cuore. Il suo viso era stravolto.
Dall’espressione di dolore mia madre intuì subito cosa era accaduto.
Lo abbracciò, lo baciò e cerco di dargli tutto il conforto possibile. Lui
continuava a piangere ed a ripetere: “Povera mamma mia, povero
Alvaro, che brutta fine hanno fatto”.
Ci volle molto tempo affinché si riprendesse, ma era un uomo forte
e superò anche questa durissima prova.
Gli eventi della guerra i costanti pericoli consigliarono a mio padre
di trasferirsi con tutta la famiglia a Toffia, un paesino della Sabina
vicino Rieti, nella casa di mio nonno paterno.
Iniziò così a fare la spola tra Roma e Toffia con qualsiasi mezzo
che gli capitava, ma più spesso a piedi.
Esisteva la ”borsa nera”, una sorta di contrabbando e poteva
accaparrare, acquistare, barattare tutto quanto poteva servire per il
sostentamento della famiglia.
Non posso tralasciare un aneddoto che più volte mia madre mi ha
raccontato.
Un giorno mamma decise di tornare a Roma per trasferire alcuni oggetti
d’argento da casa nostra a quella di Toffia. Inoltre fare delle spese
che i paesani gli avevano ordinato per barattare con dei viveri.
Sistemò tutto in una grande valigia e prima di salire sulla scalcinata
corriera che l'avrebbe riportata al paese, chiese all'autista che
anche la sua valigia fosse sistemata sul portabagagli insieme a
tutte le altre come si usava con le vecchie corriere d'epoca.
Dopo un massacrante viaggio su strade polverose e con molte
fermate in altri paesi, giunsero finalmente a Toffia.
Mia madre stanca e sofferente scese dalla corriera e attese che l’autista
salisse sul portabagagli e scaricasse tutti i pacchi, ma della sua
valigia non c'era nemmeno l’ombra: Rubata
Sicuramente qualcuno approfittando delle tante soste negli altri
paesi se l'è portata via di soppiatto, un bel colpo!
Mia madre cadde in un profondo sconforto e non riusciva a darsi
pace per essere stata così ingenua.
Mio padre la consolò dicendo: “ meglio la valigia che se i tedeschi
avessero mitragliato la corriera” e sorrise di cuore...
Un caldo pomeriggio di agosto, dopo pranzo, si avviò come tutti i
giorni verso il posto di lavoro. Salutò con un bacio mamma e disse
a mio fratello Sergio: “accompagnami al lavoro”.
Non immaginava certo il triste destino che lo attendeva.
Erano circa le 17,00. Io ero intento a giocare con le lattine sulla
pista di gesso davanti al nostro grande portone, quando mi accorsi
che mia sorella Vilma aveva le lacrime agli occhi.
Mi avvicinai e le chiesi perché piangesse, lei rispose: “papà e
cascato”.
Nella mia mente di bambino pensai che fosse caduto dal
marciapiede, mai avrei immaginato che invece era precipitato da un
balcone al quarto piano del palazzo dove stava lavorando a degli
artistici stucchi; con mio fratello Sergio impotente e disperato
spettatore.
Trasportato in ospedale, morì per emorragia interna.
Aveva solo 39 anni e lasciava una famiglia nella disperazione.
Vidi uscire mia madre dal portone in preda alla disperazione, mi
prese per un braccio e mi trascinò fino in casa e in camera da letto.
Ci mettemmo in ginocchio sotto il grande ovale appeso alla parete
in alto, raffigurante la Madonna con il Bambinello in braccio e
gridammo alla madre di Dio di salvare mio padre.
Quell'accorata e straziante invocazione rimase inascoltata.
Al processo molti di quelli che erano stati i più sinceri amici lo
abbandonarono per paura di perdere il posto lavoro.
Avvocati prezzolati inventarono storie incredibili: dissero che tutte le
misure di sicurezza erano state prese, al contrario di quello che
affermò mio fratello: "Mio padre stava lavorando in condizioni difficili
e precarie, sul balcone c’erano appena tre tavole di legno
traballanti e nessun parapetto".
Ma il principe del foro remunerato con una ricca parcella, replicò
che non si poteva dare ascolto e credito ad un ragazzo minorenne
di appena 15 anni e per di più figlio del defunto.
Sul letto di morte il suo ultimo pensiero fu per la famiglia.
Raccomandò a mio fratello maggiore Sergio di prendersi cura della
mamma e dei fratelli.
Spirò così semplicemente, come semplicemente era vissuto.
A mia madre fu assegnata una piccola pensione che sommata a
quella dell’INPS ci ha permesso di sopravvivere.
Mio fratello Sergio ha dovuto abbandonare gli studi.
Fortunatamente riuscì a trovare una lavoro in un grande Bar del
centro e comincio a guadagnare i primi soldi che mise sempre
disposizione della famiglia.

Mia madre era incinta di otto mesi. La morte del suo amato Ubaldo
l'aveva completamente annientata, trascorse gli ultimi due mesi della
gestazione quasi sempre a letto e in preda a crisi di pianto.
Il giorno del parto fu assistita da una brava Ostetrica, ma anche
le donne del palazzo si mobilitarono per aiutare.
Ad un certo punto Francesca la portinaia gridò "sono due gemelli!"
Nacquero così due miei fratellini ai quali fu dato il nome di
Ubaldo e Maria Luisa.
Ma mentre il bambino cresceva in ottima salute, la piccolina era nata
con una malformazione al cuore dovuta, a detta degli specialisti, dal forte
stress vissuto da mia madre dopo la morte di mio padre.
Maria Luisa visse solo otto mesi, a nulla sono valse le cure e il lungo
ricovero in ospedale insieme a mia madre. (forse oggi si sarebbe salvata)
Ricordo come in un film il semplice funerale e la sua piccola bara bianca.
Le sue piccolissime ossa non ancora formate si mischiarono con la terra.


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